Dolore e omissione della vita.

Recensioni e Interviste


Di Andrea G. Cammarata

Emmanuel Carrère “Vite che non sono la mia”, recensione.

Emmanuel Carrère, “Vite che non sono la mia” (Einaudi), 200mila copie Oltralpe, sei anni di lavoro per un libro, senza ombra di dubbio tragico, pessimista, sconsigliabile. Tuttavia un libro bello anche grazie al noncurante realismo anti-cinico di cui si predispone. Impertinente, privo di una qualsivoglia comprensiva sensibilità umana, spinge la sopportazione del dolore ad una soglia, poi nel baratro. “Non è un libro sulla speranza” dirà la voce di Carrère. Non c’è in realtà nulla nell’opera, oltre l’essenza negativa di un’umanità cattiva, reale, contemporanea, ciò che è a sua volta un riflesso dell’autore. Fatta eccezione per quei “legami umani”, quegli stessi “legami” che lo intrappolano a tal punto da chiamarli tali. Chiave del libro è la cooperazione umana, la solidarietà sociale, strettamente necessaria a salvaguardare meschinamente la dignità personale di fronte alla tragedia. La sofferenza è scrutata dalla felicità. Lui aggiungerà: “l’infelicità è maneggiata senza filtri…”. L’oggetto della vita in generale “la grande vita” (Malraux) smontato omesso, al lettore restano solo scarti e viscere. Carrère, autore e personaggio del libro, è affermato, bello, con un unico dramma, non sa se è in grado di amare, ma in questo riuscirà. Evita di mostrare alcun impedimento nell’intercedere con una certa ferocia nella vita dei lettori, grazie anche alla disponibilità che la sua fama gli rende: “…è la stessa cosa che amo nel mio lavoro: la semplicità, l’evidenza, la giustezza, e naturalmente l’efficacia”. In ciò è chiaramente parecchio lontano dall’essere lo scrittore che opera per il bene comune. Quanto agli altri, con i loro nomi morbidi i personaggi della sua storia-documentario, patiscono le peggiori crudeltà riservate dalla sorte. Una coppia di amici perderà la figlioletta annegata durante lo tsunami del Sud-est asiatico; per Carrère sarà una timida ed egoica descrizione di una tragedia umanitaria oltre che famigliare, il punto di vista di uno snob che non ha ancora adocchiato nemmeno un morto in vita sua. L’insofferenza di alcuni turisti protetti dai giardini di un albergo di lusso, attorniati da migliaia di morti, altri a bordo piscina, la vacanza “pacco” nel cataclisma generale. Carrère riesce insomma a farsi odiare poiché, oltre descrivere una realtà dura simil-pornografica, insiste nella figura dello scrittore neutro, imparziale, colui che non ha colpe. Tratta il dolore come uno storico. Si scusa, cerca addirittura compassione, chiede perdono per la sua cattiveria e al tempo stesso per la sua fortuna che lo pone lontano dalle vite che non sono la sua. E sembra complimentarsi da sé quando riesce a donare una speranza al suo nichilismo decostruttivo. In fondo al dolore dell’opera, dopo la morte, c’è una risposta per i vivi: ricominciare serbando il ricordo del dolore stesso, ma non troppo. Per i fortunati come lui già ammantati dalla felicità è riservato invece il motto: “speriamo che duri”.

Ne emerge un ritratto stereotipato del francese medio in quanto individuo, del suo essere un “turista nudo” (L. Osborne), della incapacità a socializzare permeata da una sterile visione della vita, vita vuota ma al tempo stesso profondamente artistica. Superata la prima prova di non-dolore, Carrère lascia lo Sry Lanka per catapultarsi nella sua mondanità parigina. L’ altezzosità che gli compete e la ripugnante visione di se stesso unita ad un’autostima autoctona, emergerà, suo malgrado, offesa dalla scoperta di un tumore che affligge la sorella della fidanzata. Due donne: l’una sexy, l’altra zoppa ma in gioventù bellissima. Pervade peraltro questa idea, di un nucleo familiare, quello di Carrère, intoccabile dal disastro. E’ superfluo in Carrère il dolore. Lo tratta con le pinze e si bada bene dal mostrarle sporche dopo l’operazione. Non c’è per di più un’epifania, un reale cambiamento nel lettore a seguito della lettura, l’informazione assunta lascia con un piacere dandy da insoddisfatti. Il dolore di Carrère appare puramente masochistico, esso non è superato, è invece in un continuo divenire, atto a rinnovarsi inutilmente. E’ insita una certa concessione per l’amore, panacea di tutti i mali, e lui dirà alla stampa “un’opera concepita nella tragedia è diventata un’opera sull’amore”. Ma anche questo sentimento assoluto è flebile, come lo sono due linee di febbre.

Interessante è la visione della società francese, lo studio della magistratura rossa, il rapporto creditore-debitore, la famiglia, sono però passi del libro approfonditi fino alla noia quasi nella speranza di sucitare nel lettore l’abbandono, prima della sferzata finale.

Il libro lascia chi lo acquistato nel realismo ospedaliero della malata terminale di cancro, con dovizia di particolari. Il povero vedovo del caso è per di più descritto come uno sfigato, ne più ne meno, e Carrère del tutto non si vergogna nemmeno di questo. Il pensiero dell’entourage del malato terminale, è dipinto in maniera altrettanto maligna, l’inconscio è povero, oltre che l’io dei personaggi mostrato con una nuda oggettività; è pur considerata la cura e l’attenzione compassionevole con cui lo scrittore si dedica ad amici e conoscenti del malato per raccogliere le informazioni necessarie alla stesura della sua storia. Sosterrà: “Dovevo farlo, volevo farlo. Se solo uno di loro si fosse opposto non lo avrei pubblicato.” Sensibile ma freddo è il testimone Carrère in questa operazione di riporto, dal taccuino al libro omette ciò che non sa, i suoi personaggi diventano in parte se stesso. Oltre la libertà narrativa cui alcuno si può opporre, resta il perché raccontare tanto dolore omettendone una risposta. E’ fatta concessione a tutti di frequentare obitori, stanze di ospedali-cimitero, malati terminali, tutti possono avere una idea di dolore se ricercata. Tuttavia l’imposizione assoluta a sorpresa, no, non può risultare che sgradita. Salvo almeno offrire una alternativa. Racconta una storia zen: ti ho frustato, percosso con il dolore, ma cosa è cambiato in te, hai per caso corso più forte? “Vite che non sono la mia” si ferma alla morte carezzando la vita e a dispetto di altre posizioni è privo di una reale riconciliazione con il dolore, salvo una timida e materialistica “resurrezione in terra” è un libro laico che rifugge anche dalla concrezione della speranza, risultando essere così profondamente inutile, atto solo a sensibilizzare e strappar lacrime. E’ il libro del drammaturgo, quale è Carrère, una fiction, un film tv romanzato che si lustra di una letteratura rubata ad un maestro, altrettanto votato al nichilismo, come lo è Michel Houellebecq.

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