Bambini rom
Di Andrea G. Cammarata
Estate interminabile e il tramonto sui Balcani, post-bellico, lunare, privo di umanità alcuna. Colori elettrici che riflettono la terra fra riflessi spaziali e strane forme geometriche. I bambini incrociano i loro bastoni in una guerra medioevale, picchiano il legno, non loro stessi. Così è la guerra per i territori.
La città respira calma anche oggi, le strade si susseguono piatte, e le persone camminano, leggermente inclinate, con il passo incerto e le caviglie che si spezzano. Abiti fine anni ’80, bianco dei cotoni ingialliti nelle maglie lavorate a merletto e strette al collo per le donne, le giacche delle tute in acrilico per gli uomini. Vecchie automobili, un silenzio puzzolente e sociale. “Boring life”, ti ripetono i serbi.
Si frappone però un senso di pace fra l’aria secca di giorno e le serate appena più umide e fredde. Respiri sempre, te ne sei accorto disteso nel letto ascoltando il soffio affannato dell’ansia. Non ti radi più, penseranno all’Islam quelli che ti guardano?
Piccoli pezzi di pollo, o forse altra cacciagione, sono ammassati in un tegame, li scegli, uno poi l’altro, tutti senza sapore ma teneri. E le birre annacquate si susseguono come i giorni del calendario. Le lattine nuove restano integre e vuote sul tavolo, dove attorno la stanza è vuota. Bottiglie di vetro più in là poggiano sul pavimento in attesa di essere riciclate da qualche d’uno.
Il pomeriggio finisce con una gentile famiglia del posto in mezzo ai rom di Bela PalanKa sui rilievi che dominano Nis. Trovi una comunità, ti sembra sana. Ognuno di questi nomadi nasconde un mestiere, un desiderio, il suo strumento. La fisarmonica nera poggiata sola per terra è del bambino che ti guarda timido. Stringe a sé l’amico grande il piccolo musicista. Accetta di farsi fotografare, forse accetterebbe di più. Forse vorrebbe altro: una parola, un sorriso, una carezza. Non concederai lui nulla di tutto ciò. Sei coperto da un timoroso rispetto reverenziale per persone ancora sane.
Volgi poi lo sguardo verso i monti scansando i riflessi delle luci forti e l’ombra proiettata dell’antico monumento che si staglia sulla piazzetta. Alla base alcuni cannoni fanno da giostra per i bambini, in due ci giocano parlando l’italiano e il serbo. Uno di loro si chiama Dobro, buono, significa nel modo neutro della lingua serba. Salite insieme in cima al monumento, vi attende una lunga scala di legno scuro. Andrea, 11 anni, avrà le vertigini, ti dirà “Torno giù, torno giù”, rassicurandoti con intelligenza dopo aver scrutato un attimo oltre il portoncino affacciato sul vuoto. Attorno altro non c’è che i Balcani.
Il recinto di protezione è basso, pensi cadere sospinto dal vento da Ovest. Scatti due foto, venute male. Guardi la festa rom dall’alto, loro quasi non si vedono. L’Europa da lassù, su quella torretta, è lontana e il tempo non è necessariamente legato allo spazio. Bossi ha chiesto un referendum per la secessione, “non sa quel che dice”.
Cammini a piccoli passi lungo il perimetro della torretta del monumento, è uno spazio angusto che si fa largo solo agli angoli. Lì, dove le forze dei segmenti di cemento si uniscono come due esseri umani legati per sempre, hai un maggior respiro. Percorri il quadrato, nei quattro angoli la sensazione si ripete appagante. Lungo i lati stretti invece a mala pena riesci a mettere i piedi in fila l’uno all’altro. Cammini in mezzo al cielo azzurro in questa zattera di cemento. Ritrovi il portoncino per ridiscendere lungo una così familiare scala a chiocciola. Bandiera serba riposta stropicciata in un angolo buio, e altri antichi arnesi che giacciono inutilizzati. Sfiori saggiandolo l’ultimo tratto di corrimano della scala, “ottimo materiale, ben fatto” ti sei sussurrato con piglio da imprenditore. La custode ferma davanti a te ha chiuso la porta d’ingresso in un solo gesto, “hvala” le hai detto ringraziando.
Dobro gioca sui cannoni della guerra, è quasi muto, ma ha accettato di farsi fotografare. Il suo volto appariva chiaro nel display della tua Lumix con obiettivo Leica, e sei stato severamente soddisfatto di quel tuo acquisto affrettato in un centro commerciale di Sao Miguel. Il flash era scattato puntuale illuminando a dovere l’altra estremità della bocca del cannone, dove il viso di Dobro si riusciva a delineare chiaro e tagliente appena coperto dalle due dita composte nel sengo della V. Come indicare il “vinceremo” di Churchill, hai pensato ricordando un articolo di Repubblica.
Ti allontani zoppicando, anche il tuo di passo è diventato incerto. Non vorresti più muoverti, l’immobilità è ormai una religione. E il ventre è sempre più gonfio.
I rom ballano, li guarda un contadino con il pollice annerito, forse ha il cancro. Fuma. Inclina la schiena verso il taglio dello scalino, vi si poggia sopra con l’avambraccio, il polso gli si scopre, è quindi seduto fra la sua gente. I nomadi ora stanno recitando, un altro ha cantato Michael Jackson, ma è un festival tuttavia troppo istituzionale. “Avranno anche loro una vita noiosa”, ti sei chiesto.
Sei ora nel centro commerciale, il Mercator. Un’anziana signora ti ha salutato un po’ impressionata, “parli tedesco” chiede. “No”, le hai risposto con il mento basso mostrando il profilo in quel sorriso ruffiano privato di un dente. Hai quindi riunito le mani dispiaciuto. La signora era contenta nel vederti scrivere. Avrebbe voluto parlare, ma ha rinunciato con sensata oggettività visto il limite della lingua. E’ stato comunque un attimo febbrile, e la comunicazione c’era. Quelle mani che sventagliavano in diversi modi. Le mani che stringevano più forte il manico della borsa in un pugno serrato in cui scintillavano gioielli di bigiotteria. Il rossetto un po’ sbavato, i colori accesi della sua roba. Il caffé Largo.
Dove hai incontrato anche un’altra signora serba, Danijela, ti ha raccontato che il cyber love esiste nella vita reale. Che lei si è innamorata del vecchio italiano per cui era badante, parlandogli nella stessa stanza in chat, perché utilizzava Google Translate, che era l’unico modo che avevano per comunicare. Si sorridevano spuntando i loro sguardi attraverso i monitor che si fronteggiavano un po’ lontani nel salotto, poi continuavano a leggere la traduzione domotica e incerta che Google affidava loro.
Il fondo del caffè ti riporta ai nomadi sulla collina, non parlerai con nessuno di loro. Come i testimoni di un incidente stradale tal volta noi non conosciamo i coinvolti.
Teoria dell’inclusione.”Drink a beer, go to hell precious life”, ti ha detto il barista con la faccia scavata nella pietra. Rientri in appartamento, c’è una brochure sul divano, “Leadership and organizational change, tha many faces of leadership in change management”, si legge in copertina. Tralasci e pensi che hai fatto male, quella volta, a leggere così frettolosamente la Bhaghavad Gita.