Poesizioni 5

Poesia e storie

E’ la montagna che fredda e dura anima

protegge

E insieme le sue sorelle austere suore bianche

Alpi del Rodano

E cieli tersi spaccati nella roccia

avvolgono

in un a sé universo altissimo.

Del bianco eterno che uccide ogni colore

battendosi contro il blu della notte stellata e luminosa

e la luce riflessa dei lampioni che loro si bevono come birra

nel bianco della neve

scivolano gli stagionali oltre i trottoirs

A rinchiudersi in celle di legno che scottano come saune

nascosti da tende di zingari e carton gessi parigini

chiusi gli occhi

in sogni lancinanti e ossessivi e rapidi e convulsi e incubi

e sonni

e sudore madido accanto agli chauffages elettrici dell’atomico francese

e fuori la vicina della porta accanto, lei che profuma come Arbre-magique

E corse al lavoro nei meno venti ghiacciati gradi

e affanno nel respiro che ti soffia nelle orecchie come il fiato di un mostro

e spalaneve che imbrattano turisti di neve

e pale e pale e pale di ferro

che si sollevano forti come bastoni primitivi

per ricadere insieme alle braccia esauste

fra neve che non è mai la stessa.

E guance che si ghiacciano come pollame congelato

sotto la nube immensa della fresa

e ciglia bianche incollate chiuse di Cristo

che il vento del nord non ti accarezza

e vassoi bianchi di Coca-cola e piatti bianchi

e ketchup come sangue sulle mani che si incollano alle ceramiche dei posa ceneri Ricard

e vesciche nei piedi freddi addormentati dentro gli scarponi del corpo speciale

Voci che urlano nelle teste che loro sono stanchi

e motivi radiofonici che impazzano schizofrenici nelle menti

insalata birra e patatine congelate ferme in uno zero della materia

e corvi neri che se ne nutrono

e poi si poggiano ai taxi ABC e chauffeurs che glissano temerari sui van bianchi

a Tigne e Courchevel e Albertville e prima del borgo del santo Maurizio

che li uccide

E coppie di giovani diciottenni stagionali

che bruciano in macchina e muoiono abbracciati

così ad ardere avvolti da una superficie ghiacciata

per padroni che non danno alloggio

E Jimmy che trova fica senza nemmeno guardarla

e Paul che beve litri di Redbull

e Duncan che sorride come il fratello

sono al biliardo a strofinarsi sul solo prato verde di Val d’Isère

E buttafuori serbi e bulgari che pestano a sangue italiani maestri di sci

E Sophie femme de chambre che nuota come la rana

mi resta immobile nel centro acqua sportivo

e l’altro senza io stabile si scioglie nell’hammam e fustiga sé al secchio finlandese.

Poesizioni 3

Poesia e storie

Guardano al caso umano

gli eventi che ti si portano

come un giovane corre nel vuoto

nel non di là

della recessione

E spasimi di piacere intro che si legano alla desolazione

quando riposi infiniti non colmano il non giorno

un appartamento vuoto ha uguale applicazione, casa

letto della cella

il deposito delle memorie è altrove

e vive come la persona nel corridoio delle scale

solo, avvolto di luce al neon

e vive dovunque non luoghi

la vittima, del prossimo come una pianta in vaso

debutta, ancora e sempre principiante nella vita

e si nutre ad essa

come un transessuale che graffia i capezzoli all’uomo che ama

come l’amante di un suicida che si fa suora

come colui che sa: nulla è poi così grave

come il monaco che rompe nasi

come le tips di New York

come la condizione umana di Malraux

come il trionfo della morte di D’annunzio

come Grillo Forrest Gump

come un pixel che non si ricompone in streaming

come la felicità.

Poesizioni.2

Poesia e storie

 

buttando vitreo futuro vuoto differenziato

Giocondo a canto al martino

occhi bianchi oltre i quadri della maglia

le rosa tenui mani

anni cinquanta di terra

torto fiato

e vista non più.

 

brandisce coltello cui sfiora unghie ornature del ferro

luccica fra la plastica grigia

l’altra arma che porge, o altra mano

nell’orto suo intinto ad estranei.

 

non vede il Taglia erba

suo gioco di vecchio bambino

ma la memoria del corpo soprassiede il corpo

e ti taglia la mano la macchina, quella.

 

-torni buon uomo nella sua casa

 

la moglie non c’è più in un sorriso

ho fatto tutto quello che potevo fare.

 

 

Poesizioni. 1

Poesia e storie

Oggi il vento si è portato via anche me

che sono terra sua.

 

A canto angolo vuoto del freddo nord, inclinato come un pianeta

centurione stellato eri avvolto

nel manto nero.

Ora lo sguardo si terge, celeste.

A cuccia di corde altalena balinese,

feto adulto dentro l’ulivo

ode il proprio respiro.

Verde.

Dondolo e dolgo incosciente.

bestia Tobia.

e cara erba capovolta

questi occhi color terra, ti vedono.

To Serbia. Altri giorni di Nis, prima parte.

Balcani, Poesia e storie

Incrocio a Nis

Di Andrea G. Cammarata

Rientro al buio sollevante da Sarajevo, 7 ore passando per Valijevo, mentre i passeggeri del minibus ti prendono forma intorno trasformandosi in una carovana di viaggiatori silenziosi. Al fianco del sedile reclinabile su cui siedi c’è questo iron-boy che gioca ossessivamente con il telefonino e sembra una donna. E dietro due studentesse si offrono patatine e dolciumi, l’una le rifiuta. In mezzo fra i cinque sedili in fondo un contadino riposa beato e sembra stanco da almeno cento anni, russa forte, mentre l’altra labbra rosse sorride ingenuamente. Pausa, smoke, il gelo che blocca le ossa e mente ormai vuota, e occhi che scrutano una coppia innamorata di vecchietti pensionati che esce mano nella mano dal mini-van, e lei che poggiando le gambe fragili sul suolo ghiacciato e lunare dei balcani stringe il polso del compagno, e copricapi slavi che si uniscono sfiorandosi in baci antichi. La radio suona forte e incessante trasmette canzoni turche, stordenti che impediscono di dormire. Ultima destinazione del bus sarà Skopje, Macedonia. Scendi a Nis in Serbia meridionale. I due autisti si sono scambiati solidali il posto di guida, e durante le pause in kafana bevevano soltanto té, hanno una forza disumana, non temono ghiaccio, montagne declivi, e viaggiano, come per loro come per noi.

“I quattrocento colpi” di Truffaut, proiettato sul portatile, che gelosamente custodisci, e che é essenziale in viaggio, e che ora fa la gioia degli sguardi curiosi degli altri passeggeri. Vecchia pellicola in bianco e nero sei la giusta storia di un ragazzino sconcertato che si libera nella Parigi del dopoguerra.

A Nis sono quasi le quattro del mattino, la stazione dei bus riposa puzzolente ancora avvolta di smog, e pezzi di carne abbandonati  congelati sulle griglie dei corner ti guardano, l’aria è ferma. Costeggi la fortezza turca, bianca immota, volti le spalle e traversi il ponte sulla Nissava. Si apre la città dinanzi mentre scorgi un barbone che bussa alle porte del betting center e il cavallo di bronzo che troneggia nella piazza centrale sotto il grattacielo grand hotel Ambassador. A testimoniare le guerre serbe il ronzino unto e sudicio è ancora lì. Monumenti che fissano il tempo amaro. Uno dei panifici 0-24 sembra invitarti ma scegli che no, meglio non mangiare, se “il digiuno rinvigorisce lo spirito”. C’è uno strano rapporto con il cibo qui, sarà causa della guerra. Punti il bi-locale che ti aspetta, bussi, bussi all’infinito finché non aprono. C’è spazio in terra, letti pieni, “dormo lì nell’angolo fra il mobile e la stufa elettrica colma di pietre di quarzo”. Pavimenti dei balcani, pavimento di legno morbido e scuro, e a terra si sta freschi. Sono le 4 e tutto è calmo, nonostante tutto, “nonostante me”. Nonostante tutto il bilocale profuma. Ritieni che da domani servirà generosità se viaggiare rifocilla l’animo annientando quel nichilismo miserabile cui si sottopone l’intero occidente.

A giorno Nis si proietta come le foto anni ottanta sui teloni per le diapositive: è sporca, annebbiata dai fumi delle vecchie auto, e dalle stufe, e dalle sigarette. Nis che puzza anche nelle giornate più terse come lo sono queste di gennaio. C’è una libertà priva di etichette salutari miserabili ed europeiste, con cui nei bar si fumano anche 4 sigarette, o forse più, per un solo caffè. E aspetti il freelancer che ti parla della strage di Srebrenica in Bosnia. E più tardi di nuovo fuori sulla strada fra musicanti e ottoni argentati, rom bassi che padroneggiano le loro famiglie riverse sui marciapiedi, fra la gente di Nis, e qualche d’uno degli ottocento nuovi arrivati per lo stabilimento di Benetton che aprirà in sordina compensando la perdita di lavoro in Italia per la finta-gioia di altri operai serbi. Serietà, sguardi che significano niente e più, trucchi pesanti, strati di fondotinta che nascondono pelli avvizzite e si colorano fra i viola schocking sulle palpebre e le unghie squadrate e rifatte. E zeppe come carrarmati, e gambe lunghe involte da shorts o minigonne come salamine che si protendono verso il cielo nel vano tentativo di equiparare le altezze inarrivabili degli amanti serbi. E’ sera mentre si scrive e il tramonto affoga fuori nei balcani, e i ragazzi mangiano pasta al ragù e bevono rakija, e scrivi di Sarajevo “quel poco che va fatto”, e “c’è la connessione lasciatemi scrivere”. “Andrea staccati di lì”. Ciò che avviene guardando oscene comiche clip in dialetto toscano su You Tube. In tutto questo tal volta la vita sceglie di orientarsi. E non c’è tempo, vale bene correre snobbando il gelo nelle mani per essere al Tesla café. Dove la musica è forte, il segnale Wi-fi sempre disponibile, e la tappezzeria di banconote da cento dinari fotocopiati ti guarda calorosamente. Uno studente serbo di base a Thessaloniki trascina le tue braccia ancora verso una bevuta improbabile, non prima di un dovuto: “who are you? Are you a spy?”.

La Grecia è per il sud della Serbia un punto di riferimento. E da Nis i cartelli stradali invitano verso Thessaloniki, Atene, o Skopije, o Pristina, o Sofia, e tutto ciò è davvero meraviglioso. Senti di poter essere ovunque, duecento, trecento chilometri massimo e ogni grande città è li ad aspettarti. Oltre c’è la fine amara della Jugoslavia che con la balcanizzazione è diventata una foresta in cui le nazioni sono riapparse prepotentemente come funghi, è un medioevo geopolitico fatto di dipendenze e prevaricazioni reciproche.

Si scappa dallo studente di Thessaloniki adducendo vane scuse, “sono stanco”. Se sottrarsi nei Balcani da qualcuno che ti offre da bere è quanto meno offensivo.

Nella notte alcune chiese ortodosse affiorano timide semi-interrate nelle strade risalenti alla dominazione turca che ne consentiva solo così la costruzione. “Di modo non appariscente” doveva essere l’espressione del sultanato. E la Serbia è ancora turca, per la musica, per il caffè, e stupidamente per quanto si fuma. E’ parlare, lingua serba, serenità dello stare insieme, e di apparire in pubblico in una vanità sana e post socialista.

Fine prima parte.

To Serbia. Natale a Sarajevo.

Balcani, Poesia e storie
Moschea a Sarajevo

Moschea a Sarajevo

Di Andrea G. Cammarata

Bus vuoto verso Sarajevo, riscaldamento rotto. Freddo terribile la Bosnia Erzegovina è bianca di neve. Un sonno fastidioso attanaglia la testa. Piccoli villaggi si susseguono lungo le strade. Pause brevi nelle kafane. Non hai Marchi bosniaci. C’è un ragazzo che punta la testa contro il sedile difronte. Studia teologia a Belgrado, diverrà pope, è nato a Sarajevo in quella parte della città che ancora non era la Repubblica srpska. Domanda una sigaretta, è alto impaurito avvolto nel suo cappotto di panno nero. Ombra lunga e scura sulla neve tutta intorno. Fuma, pone qualche domanda, conosce Ravenna e l’arte bizantina.

Alla frontiera in Bosnia il doganiere butta solo uno sguardo sulla carta di identità che gli hai appoggiato timidamente nelle mani. Il poliziotto serbo in uscita ti aveva invece detto: “italiano”. Le strade di Bosnia si avvolgono in un nulla mistico e silenzioso.

Arrivo a Sarajevo tutto è spento. Il ragazzo ortodosso viene accolto dal padre ancora più alto di lui. Chiedi loro di cambiarti valuta, mille Dinari perché “tu tornerai a Belgrado”. Non vuole. Dice Sarajevo è divisa in due, ma bosniaci, croati e serbi: “are not bad people”. Non credi a quello che ti raccontano i media. Lui cercherà di accordarsi con il tassista serbo per farti lasciare nella parte vecchia della città, 15 marchi. Pagherai in euro, “thank you man” hai detto al tassista. L’ortodosso è andato via con una pacca sulla spalla, indifferente. Scendi dal taxi hai una moschea enorme che ti sovrasta, il fiume sotto. E’ vigilia di Natale a casa. E qui donne con il velo e uomini camminano per la strada, lenti e calmi non incrociano sguardi.

Gli intonaci dei palazzi mostrano i fori dei proiettili della guerra. Ce n’è ovunque. Le moschee si ripetono nuove e insulse.

Dormirai da Divan, ostello i cui proprietari sono musulmani. 30 Marchi il costo della stanza, 14 gradi la temperatura interna. Il fratello del locandiere beve vino bianco, “do you drink alcohl?” mi chiede. Dici: “yes, yes. Are you Serbian?”. Risponde che no: “I’am muslim”. Gli piace la techno music e la vita notturna di Belgrado. E conosce a mala pena la composizione della Bosnia Erzegovina, a stento ti parla dell’esistenza della Repubblica Srpska. “Ci sono problemi come ovunque” . Aggiungerà che “stasera è Natale e di fronte alla cattedrale cattolica offrono il vino”. Triste bosniaco affermerà che “We’ve no country” spiegando che: c’è di “tutto”, “cattolici, musulmani, ortodossi, ebrei, cinesi, giapponesi”. Il locandiere compare più tardi con una stufetta elettrica: “attento a non bruciare”, dice offrendo anche una stanza più calda. Sul comodino c’è un libro in inglese “La causa bosniaca”, non lo aprirai nemmeno.

Per le strade di Sarajevo leggi nomi musulmani che si ripetono nelle insegne, “Omar” oppure “Samir”. L’indomani, giorno di Natale, riesci a cambiare moneta alle poste. L’impiegata negherà i Dinari serbi, esigendo invece il passaporto per gli Euro. E l’impiegata dell’ufficio turistico , odiosa, rilascia con fastidio e sacrificio qualche informazione  parlando in uno slang americano difficile.

Sarajevo è bella, scivola dalle montagne con le sue casette verso un fiume che la costeggia. La piantina dell’ufficio turistico è costellata di crocette cattoliche e mezze lune islamiche, non si capisce esattamente cosa vogliano indicare. Ci sono stampate anche le miniature di ogni moschea e della cattedrale cattolica. Per la cattedrale ortodossa non c’è nessuna miniatura, solo un numero che rimanda alla legenda.

Nevica forte, i piedi ghiacciati, cammini unicamente per perderti e vedere. C’è un bus per Monstar, sei incerto sul da farsi, da lì potresti non tornare a Nis, in Serbia.

Nella piccola kafana “Zmaj”, poco distante dalla stazione dei bus, si consuma solo birra analcolica. Mangerai salsicce di non sai quale carne e cipolla cruda. La cameriera ti ha servito con sospetto, profumava di Dior “Miss cherie”, è sembrato. E’ rimasta interdetta nel sentirsi domandare una birra: “Pivo”. Nel bagno hai cambiato i calzini fradici con quelli asciutti.

La Bosnia è essenzialmente triste, le persone sono schive con una gentilezza non esposta. Ci sono addobbi di Natale e qualche luminaria. Molti ambienti sono riscaldati in maniera approssimativa. Anche i rom sono più tristi. Qui la guerra c’è stata, in Serbia fu nulla al confronto. Prima di partire leggevi il rapporto dell’Onu sulla strage di Srebrenica. Sarà quello. La domanda si ripete: “cosa si sono fatti in Bosnia”.

Torna in mente Rumiz che raccontava dei cecchini che sparavano sui passanti di Sarajevo dalle montagne con i fucili di precisione.

Resta una felicità di turbamento. Aspetti con ansia il prossimo libro di Michel Houellebeq. Hai con te il Meridiano di Keruac, perché è spesso e fa da sostegno ideale per il lap-top impedendo che si surriscaldi. Però, dopo 15 anni, li rileggi “I vagabondi del Dharma”.

E’ l’ultima pagina del taccuino rosso dei Balcani, ne hai un altro nero e ancora la penna gialla non è finita. Il pacchetto di Gauloises Blondes è ormai vuoto, sopra ci leggi “Liberté toujours”. Un gatto bosniaco fra le gambe ricorda i film di Emir Kusturica e i rom.

I rom non hanno fatto nessuna guerra. Sono i territori le cause della guerra. E’ successo poco in questo Natale, ma qualcosa è successo. Stringi la mano a Felice, povero tassista cattolico dell’Erzegovina che ha studiato alla Bocconi grazie alle borse di studio di Tito, e che ti ha accompagnato in Repubblica srpska nell’altra stazione dei bus di Sarajevo. Infine una teatrante croata dell’Erzegovina ti presterà due marchi, da aggiungere al biglietto per Nis.

To Serbia. Un giorno a Belgrado

Balcani, Poesia e storie

Ponte a Belgrado

Di Andrea G. Cammarata

Un rom di mezza età vende Armani Code e Acqua di Giò, altre scatole di profumo di marca gli rotolano fra le mani. Certamente dei falsi. Armani può significare molto, per altri motivi, se di lì a un giorno riuscirai a connetterti e scaricare e-mail sulla strada verso Sarajevo. Fermo a una pompa di benzina per il rifornimento del minibus che ti accompagnerà in Bosnia.

Oggi è Serbia, Belgrado, anti vigilia di Natale, freddissima, ore sette. Ospite in un appartamento sembra Parigi. Stessi legni negli infissi, stessi corrimani lungo le scale e stesse serrature che glissano insicure a fermare porte sottili. E buchette delle lettere che nell’androne aspettano buie le sacre pensioni di Tito. Ciò per cui in Serbia ancora i figli vivono.

E’ un arrivo brusco: inglese, toscano, italiano, serbo, fra lingue straniere che s’incrociano prive di logica. Se tutto è dovuto al caso. E oscillazioni strane come i vecchi ammortizzatori della berlina bianca che vibrano ancora nelle gambe. Non sei stanco.

Stanza calda e stufa di ceramica che si allunga verso il soffitto parlaci del socialismo con il tuo scarno arredamento jugoslavo, e di quella foto sbiadita di un vecchio padre appesa sopra due letti che si guardano.

Tu dormirai a terra nella lato più stretto lungo il corridoio. Sonno di piombo, finalmente, dopo settimane.

Ora è tempo di capire, cosa è successo.

Carabiniere veneto, posto di blocco prima della frontiera slovena, chi fermerai dei tre? Un’utilitaria targata Germania, la berlina bianca serba con il distintivo Corpo Diplomatico nel paraurti, o l’articolato che per poco non si mangia tutto. Così è la strada. Emile ha chiesto: “mi devo fermare?”. Vai, vai.

“Quella Germania che ha supportato l’indipendenza slovena” pensi superando il confine europeo, libero grazie a Schengen. Neve sulle alpi di Carinzia. Croazia cattolica, rettilinei infiniti e sicuri. Non c’è pausa è un incessante andare. Qualche dattero riempirà gli intestini dei viaggiatori fino alla Serbia. Serbia non più turca da cento anni e più.

Difficile perdersi a Belgrado: è un orientamento fatto di macerie, subdolo, lo senti sotto pelle. Due palazzi bombardati durante la guerra del Kosovo ricordano orribili che non è finita. Non puoi distrarti. E’ un memoriale inverso dei governi serbi per non dimenticare che tutto può ricominciare. Belgrado era la Jugoslavia: l’ex-Jugoslavia è una polveriera ti ripeti.

E’ Natale ma non per il calendario gregoriano. Città viva brulicante. Nelle librerie i volumi del bosniaco Ivo Andric abbondano negli scaffali quindi tutto non è così diviso. Rom che frugano nei cassonetti. Belgrado dove i parcheggi si pagano con un Sms. Belgrado dove c’è chi non si prende il dolore di privarsi di una birra anche il giorno dopo. Tutto qua. E serbi che indossano giacche di tute mimetiche di colori non militari. Le sanzioni della Nato, l’embargo degli anni ’90. “Mortadella e Nutella, gnam, gnam, gnam” cantano i S.A.R.S. a ritmi Ska ai giovani slavi. Uno di loro ti chiede di intrecciare le mani per lui e offrigli uno scalino umano, scavalcherà così una sbarra per raggiungere gli amici.

Tornano in mente le barricate al Gate 31 in Kosovo settentrionale. Ci andrai. E cantano i Dubiosa “I’m Bosnian but I belong to myself”, e i bosniaci alzano le braccia. E cantano i Dubiosa “I’m Serbian but i belong to myself”, e i serbi alzano le braccia. Lattine di Jelen sono disseminate ovunque.

E Rakija: insegnanti francesi dirette verso Parigi: ci vedremo a gare Saint-Lazare, un giorno. E Bojana, giovane serba studentessa a Rotterdam inviterà due sloveni al tavolo, uno è un giornalista sportivo. “I serbi sono inferiori, noi siamo entrati in Europa”, le dirà.

Pacchetto di Gauloises blu, il secondo di una notte a Belgrado. Tassista anziano che hai conosciuto il socialismo: “take the street on the left beetween the two destroyed building”, e insisti per indicargli tu la strada verso l’appartamento delle due serbe di Valjevo.

E’ un risveglio aggressivo. La colazione è una caramella donata da un Babbo Natale croato promoter in una pompa di benzina. Niente caffè, niente brioche. Andrai a Sarajevo. Un ragazzo gay indica la stazione dei bus al fianco di un edificio giallo: “In Serbia is better to travel by bus”, dice. E Felicità quando Nina Simone cantava forte nelle orecchie mentre la berlina bianca correva lungo il corridoio 10.

Ain’t got no, ain’t got no class. Ain’t got no skirts, ain’t got no. Ain’t got no, ain’t got no. Ain’t got no . Ain’t got no, ain’t got no culture. Ain’t got no, ain’t got no schooling. Ain’t got no love, ain’t got no. Ain’t got no, ain’t got no token. Ain’t got no God. And what have I got? Why am I alive anyway? Yeah, what have I got. Nobody can take away? Got my hair, Got my…Got my brains, Got my…Got my eyes, Got my…Got my, I got my smile. I got my, Got my chin. Got my neck, Got my…Got my heart, Got my soul Got my back, I got my sex. I got my, Got my hands. Got my fingers, Got my…Got my feet, Got my….Got my liver, Got my blood. I’ve got life , I’ve got my freedom . I’ve got the life. I’ve got the life. And I’m gonna keep it. I’ve got the life. And nobody’s gonna take it away. I’ve got the life.

Di lì a poco Nina Simone chiese ai fan di comprare il suo album. Quarantaquattro anni dopo Andrea consumava caffé turco nel bar della stazione dei bus di Belgrado. Utilizzava la toilette per 30 dinari. E scriveva questo. Poco prima alcuni serbi restavano muti per alcuni momenti in fila in un panificio, pacati, con la stessa attitudine che era in una mensa socialista.

To Serbia. Io è un altro

Balcani, Poesia e storie

Strade di Nis

Io è un altro. (Rimbaud)

Di Andrea G. Cammarata

Candele accese in un angolo onorano San Nicola patrono di Bari, e attorno alcuni bicchieri mezzi vuoti di birra risplendono sulle cicche di sigarette spente. Posaceneri sporchi, briciole e dolci di noce infilzati da stuzzicadenti rotti. Quadro ortodosso non praticante. “Non hai fatto il segno della croce, lo dovevi fare prima di mangiarlo”, è Dragan che ti ha parlato di un’usanza religiosa.

Fine 2011, Serbia meridionale. Le mani si stringono in segno di amicizia mentre sguardi reciproci scambiano pensieri passanti. Sensibilità serba e serbi come innocui cuccioli randagi che riposano per le strade. Pensano con il cuore i serbi, mentre si fronteggiano rispettosi e i boccali si alzano colmi nelle loro mani.

Con serenità anestetizzata pensi, e sembri quello straccio ormai asciutto, stretto e abbandonato sotto il radiatore rovente.

Al Tesla cafè tutto è giustamente elettrico. Espresso: “Lavazza” o “Molinari”, non hai altra scelta se non quel caffè turco che deborda dalle tazze in ceramica, schiumoso e colorato come un sapone industriale. Balkan life, atti dovuti che si susseguono alla solitudine. E scontrini che arrivano sui tavoli dentro bicchieri da short, uno per ogni consumazione, e al saldo sarai tu a doverne fare una incauta somma. Poi la sera le Rakia si susseguono stonanti e superalcoliche durante conversazioni in italiano, francese, inglese, americano, serbo. Serbia tal volta Babele dell’intrattenimento, della cooperazione e dell’insegnamento.

“Da quasi 40 anni l’ONU occupa Cipro e non se ne andrà mai, con il Kosovo sarà uguale”, ti hanno detto. E cosa toglierà l’Europa alla Serbia? Certamente il fumo delle sigarette nei suoi bar e l’odore forte del tabacco nei vestiti. “Locali dove circola ancora il sangue delle sigarette, ecco cosa c’è ancora in Serbia”, te lo ha detto un italiano a un tavolino instabile appoggiato sul porfido rotto della strada. Hai poi voltato lo sguardo mentre tacchi di scarpe nere di cuoio italo-cinese battevano la via. Il destino è troppo lontano.

Ricarica telefonica Telenor, che partecipa a un limitato continuo dare. Incerto e soffocante capitale. Jazzisti, imprenditori, blogger, giornalisti, agenti commerciali: io è un altro. “Sei quello che vuoi”, ti ha detto Micheal dell’Alabama. “Tutto è fiaba”, e lo ricordi ancora che leggevi Novalis.

“Make a focus”, ma sfumato è il ricordo di alcuni pensieri della memoria. Fondi di caffè, superstizione locale, e fondi di portacenere. “Molim” significa per favore, hai imparato una nuova parola. E tutti i bilocali di questo mondo sono tombe di vita collegate a Internet. “Inter-niente”, come scherzano qui i ragazzi. Nella scuola hai insegnato e le ore si ammucchiavano durante lezioni di italiano ai serbi. Io è nessuno, ma il tempo dona lui la sua forma. Negozi e vetrine dove giacche di tuta e maglie americane indossano i loro manichini. Donne che si presentano offrendoti la mano come un trofeo.

Breve Nirvana, e giusta distanza dall’io. Ferlinghetti, Keruac, Ginsberg, l’urlo della scrittura automatica che seppellisce media mainstream e agenzie di stampa corrotte e filogovernative.

“Vedi questo boccale? Lo puoi prendere e scagliare per terra, romperlo in un attimo”. Vetro, vita fragile, o immensa certezza attiva del costruire. “Questo boccale può essere anche il marchio che vedi impresso sopra, la qualità della birra che c’è dentro. La quantità e il consumo che riesci a farne fare”, così raccontava il padre al figlio Mladen. “Jelen”: cervo. “Pivo”: birra.

L’allegra Kafana, osteria dal sapore post socialista con i suoi camerieri rigorosamente uomini, ora è se stessa e la banda suona musica balcanica nella minore uguaglianza che permea sempre la vita serba. “Cena” che significa “costo”, e che dice stranamente qualcosa sulla semplicità culinaria di questi posti e che dirompe l’ingordigia alimentare dell’Occidente. Insalata di pomodoro, formaggio, carne e poco pane. Povertà. “Questo e quanto”, ti spiega Bojan.

La finestra del tiepido pomeriggio è un treno che scorre con i suoi riflessi umani che se ne vanno. Irina macedone martoriata dall’acne ha dormito al fianco di un cane. Pelo ispido che graffia il lenzuolo di cotone grosso e colorato di fantasie zigane. Fiocco rosa sbiadito sui capelli che si schiaccia fra un cuscino sporco. Povera donna, l’unica ricchezza di cui dispone è se stessa.

Vecchio televisore catodico ti sei spento abbandonato sulla tappezzeria impolverata del divano. Attorno l’odore nauseante di patate fritte stanca l’aria come etere per gay. Di stretta osservanza ortodossa il lampadario dondola al centro della stanza simile alla pendola di Edgar Allan Poe. Irina necrofila e vana appariscenza della morte che porta vita. Intanto, come sabbia in una clessidra, la schiuma della birra discende dai bordi del bicchiere. E il calco di feci, brutale, colora perennemente la bianca ceramica dei cessi.

Ricordi della Croazia che scorrono su quel mare morto che voleva ucciderti, ma io è un altro e un altro quel mare voleva uccidere.

Spingi sempre più forte il gomito contro il cuore e dubiti seriamente della normale certa continuità della vita. L’anziana signora sul boulevard di Nis stava per essere uccisa, l’hai guardata durante, ma si è salvata in un balzo giovanile. Penna pugno di sudore nella mano. Noia e spleen di paranoie che imperversano in un dolore pornografico, schizofrenico e ossessivo. Editori che non rispondono cui si attacca malvagia speranza. Già, hai insegnato l’italiano ai serbi. Vladimir, uno di loro, ha scritto una lettera: “Caro Berlusconi gioco a calcio, corro molto rapido, e vado nei centri commerciali a guardare le ragazze”.

To Serbia. Andy va in Kosovo.

Balcani, Poesia e storie

Pompa di benzina in Serbia meridionale

Di Andrea G. Cammarata

HostelNis. C’è Vladimir, sei appena sceso dalla berlina bianca. Accoglienza sorridente, biondo, bianchissimo, ti stringe la mano: “benvenuto, ma avevi prenotato per novembre, non te ne sei accorto?”. Nell’androne, chinato su una bicicletta, Andy invece controlla le ruote del suo mezzo mentre ne carezza piano il telaio giallo appoggiato su una parete. Domani andrà in Kosovo, ci andrà da solo, senza storie, e passerà lontano dal Gate 31. Lontano dal valico doganale di Brnjak dove i serbi vogliono la loro autonomia.

A Vladimir hai poi risposto che “sì, pensavi fosse novembre”, e ti sei detto il tempo corre, anche il tempo è altro. Bancone della reception e sei ancora ancora appeso di borse e giacche come un attaccapanni viaggiatore. Generalità, documento e registrazione per la polizia, obbligatoria entro 24 ore dall’entrata in Serbia. “Andrea it’s forbidden to smoke everywhere in the hostel”, ti ha detto Vladimir guardandoti serio un po’ fisso negli occhi. “Ok, ok”.

Il dormitorio è vuoto. Quattro letti a castelli giacciono composti e perpendicolari nello stanzone freddo. Poggi i bagagli, passerai la notte solo, ormai è tardi. In cucina c’è Andy. E’ attaccato a Google Earth che controlla il confine kosovaro. Ma tu ancora non lo sai. Bevi la tua Jelen in lattina da mezzo litro, mangi pane e carne all’uso dei Balcani. Scruti da vicino Andy, pensi: se non gli parlo non saprò mai chi è. Stai per desistere. “Where are you from?”, Nuova Zelanda. “Vado in Kosovo in bici, parto domani mattina, voglio ripassare da Pristina”. Ecco che nel mondo ci sono persone che vivono  ti sei detto: “cazzo”. Mostri lui il sito della Kosovo Force, la forza militare di etnia albanese a guida Nato. Leggete insieme i press release. “C’è stato un morto alcuni giorni fa, un serbo. Sei sicuro di voler passare la dogana proprio ora?”. Andy non lo sa: “stay away from the border, fuck men”, risponde in un neozelandese incomprensibile. E glielo dici che non lo capisci quando parla. Risponderà “è così per molti”. Andy non si interessa. L’indomani sarà Kosovo, in bici.

To Serbia. La festa dei rom

Balcani, Poesia e storie

Bambini rom

Di Andrea G. Cammarata

Estate interminabile e il tramonto sui Balcani, post-bellico, lunare, privo di umanità alcuna. Colori elettrici che riflettono la terra fra riflessi spaziali e strane forme geometriche. I bambini incrociano i loro bastoni in una guerra medioevale, picchiano il legno, non loro stessi. Così è la guerra per i territori.

La città respira calma anche oggi, le strade si susseguono piatte, e le persone camminano, leggermente inclinate, con il passo incerto e le caviglie che si spezzano. Abiti fine anni ’80, bianco dei cotoni ingialliti nelle maglie lavorate a merletto e strette al collo per le donne, le giacche delle tute in acrilico per gli uomini. Vecchie automobili, un silenzio puzzolente e sociale. “Boring life”, ti ripetono i serbi.

Si frappone però un senso di pace fra l’aria secca di giorno e le serate appena più umide e fredde. Respiri sempre, te ne sei accorto disteso nel letto ascoltando il soffio affannato dell’ansia. Non ti radi più, penseranno all’Islam quelli che ti guardano?

Piccoli pezzi di pollo, o forse altra cacciagione, sono ammassati in un tegame, li scegli, uno poi l’altro, tutti senza sapore ma teneri. E le birre annacquate si susseguono come i giorni del calendario. Le lattine nuove restano integre e vuote sul tavolo, dove attorno la stanza è vuota. Bottiglie di vetro più in là poggiano sul pavimento in attesa di essere riciclate da qualche d’uno.

Il pomeriggio finisce con una gentile famiglia del posto in mezzo ai rom di Bela PalanKa sui rilievi che dominano Nis. Trovi una comunità, ti sembra sana. Ognuno di questi nomadi nasconde un mestiere, un desiderio, il suo strumento. La fisarmonica nera poggiata sola per terra è del bambino che ti guarda timido. Stringe a sé l’amico grande il piccolo musicista. Accetta di farsi fotografare, forse accetterebbe di più. Forse vorrebbe altro: una parola, un sorriso, una carezza. Non concederai lui nulla di tutto ciò. Sei coperto da un timoroso rispetto reverenziale per persone ancora sane.

Volgi poi lo sguardo verso i monti scansando i riflessi delle luci forti e l’ombra proiettata dell’antico monumento che si staglia sulla piazzetta. Alla base alcuni cannoni fanno da giostra per i bambini, in due ci giocano parlando l’italiano e il serbo. Uno di loro si chiama Dobro, buono, significa nel modo neutro della lingua serba. Salite insieme in cima al monumento, vi attende una lunga scala di legno scuro. Andrea, 11 anni, avrà le vertigini, ti dirà “Torno giù, torno giù”, rassicurandoti con intelligenza dopo aver scrutato un attimo oltre il portoncino affacciato sul vuoto. Attorno altro non c’è che i Balcani.

Il recinto di protezione è basso, pensi cadere sospinto dal vento da Ovest. Scatti due foto, venute male. Guardi la festa rom dall’alto, loro quasi non si vedono. L’Europa da lassù, su quella torretta, è lontana e il tempo non è necessariamente legato allo spazio. Bossi ha chiesto un referendum per la secessione, “non sa quel che dice”.

Cammini a piccoli passi lungo il perimetro della torretta del monumento, è uno spazio angusto che si fa largo solo agli angoli. Lì, dove le forze dei segmenti di cemento si uniscono come due esseri umani legati per sempre, hai un maggior respiro. Percorri il quadrato, nei quattro angoli la sensazione si ripete appagante. Lungo i lati stretti invece a mala pena riesci a mettere i piedi in fila l’uno all’altro. Cammini in mezzo al cielo azzurro in questa zattera di cemento. Ritrovi il portoncino per ridiscendere lungo una così familiare scala a chiocciola. Bandiera serba riposta stropicciata in un angolo buio, e altri antichi arnesi che giacciono inutilizzati. Sfiori saggiandolo l’ultimo tratto di corrimano della scala, “ottimo materiale, ben fatto” ti sei sussurrato con piglio da imprenditore. La custode ferma davanti a te ha chiuso la porta d’ingresso in un solo gesto, “hvala” le hai detto ringraziando.

Dobro gioca sui cannoni della guerra, è quasi muto, ma ha accettato di farsi fotografare. Il suo volto appariva chiaro nel display della tua Lumix con obiettivo Leica, e sei stato severamente soddisfatto di quel tuo acquisto affrettato in un centro commerciale di Sao Miguel. Il flash era scattato puntuale illuminando a dovere l’altra estremità della bocca del cannone, dove il viso di Dobro si riusciva a delineare chiaro e tagliente appena coperto dalle due dita composte nel sengo della V. Come indicare il “vinceremo” di Churchill, hai pensato ricordando un articolo di Repubblica.

Ti allontani zoppicando, anche il tuo di passo è diventato incerto. Non vorresti più muoverti, l’immobilità è ormai una religione. E il ventre è sempre più gonfio.

I rom ballano, li guarda un contadino con il pollice annerito, forse ha il cancro. Fuma. Inclina la schiena verso il taglio dello scalino, vi si poggia sopra con l’avambraccio, il polso gli si scopre, è quindi seduto fra la sua gente. I nomadi ora stanno recitando, un altro ha cantato Michael Jackson, ma è un festival tuttavia troppo istituzionale. “Avranno anche loro una vita noiosa”, ti sei chiesto.

Sei ora nel centro commerciale, il Mercator. Un’anziana signora ti ha salutato un po’ impressionata, “parli tedesco” chiede. “No”, le hai risposto con il mento basso mostrando il profilo in quel sorriso ruffiano privato di un dente. Hai quindi riunito le mani dispiaciuto. La signora era contenta nel vederti scrivere. Avrebbe voluto parlare, ma ha rinunciato con sensata oggettività visto il limite della lingua. E’ stato comunque un attimo febbrile, e la comunicazione c’era. Quelle mani che sventagliavano in diversi modi. Le mani che stringevano più forte il manico della borsa in un pugno serrato in cui scintillavano gioielli di bigiotteria. Il rossetto un po’ sbavato, i colori accesi della sua roba. Il caffé Largo.

Dove hai incontrato anche un’altra signora serba, Danijela, ti ha raccontato che il cyber love esiste nella vita reale. Che lei si è innamorata del vecchio italiano per cui era badante, parlandogli nella stessa stanza in chat, perché utilizzava Google Translate, che era l’unico modo che avevano per comunicare. Si sorridevano spuntando i loro sguardi attraverso i monitor che si fronteggiavano un po’ lontani nel salotto, poi continuavano a leggere la traduzione domotica e incerta che Google affidava loro.

Il fondo del caffè ti riporta ai nomadi sulla collina, non parlerai con nessuno di loro. Come i testimoni di un incidente stradale tal volta noi non conosciamo i coinvolti.

Teoria dell’inclusione.”Drink a beer, go to hell precious life”, ti ha detto il barista con la faccia scavata nella pietra. Rientri in appartamento, c’è una brochure sul divano, “Leadership and organizational change, tha many faces of leadership in change management”, si legge in copertina. Tralasci e pensi che hai fatto male, quella volta, a leggere così frettolosamente la Bhaghavad Gita.